I'm thinking of ending things: recensione del film Netflix di Charlie Kaufman

 






Chi siamo noi per risolvere il mistero. Chi siamo noi per decidere quale sia la giusta interpretazione di un fatto, per decidere il senso da dare ai simboli, alle pause, ai silenzi, alle pareti invecchiate. Ma siamo umani, inevitabilmente, e per quanto il dubbio sia calamita per i più curiosi, capita di aver bisogno di risposte, di ricercare l'univocità nelle probabilità, di voler definire tutto in categorie per comprendere e assimilare gli eventi.

Charlie Kaufman (Synecdoche, Anomalisa) scrive e dirige una pellicola raffinata in cui i gesti frenetici accompagnano una narrazione lenta in grado di amplificare il tempo complessivo fino ad integrare completamente lo spettatore in una dimensione sospesa tra realtà, sonno e veglia. "Non sono molto bravo a spiegare le cose per come sono realmente; lascio che le persone sviluppino una propria esperienza senza avere alcuna aspettativa sulle loro reazioni" dice Kaufman, maestro del perturbante: è proprio ciò che ci sembra più familiare ad agire su di noi, a renderci estranei nella nostra stessa casa, incapaci di trovare uno spazio e una dimensione confortevoli. 

Sto pensando di finirla qui: la familiarità del disagio 

Jake (Jess Plemons) e Lucy (Jessie Buckley) stanno insieme da sei settimane, forse sette. Quasi sicuramente sette, ma sembra di più. Kaufman definisce i suoi protagonisti dalla prima inquadratura, li scruta, li viviseziona materializzandone i pensieri come fossero dei sottotitoli. I primi piani densi e pastosi si soffermano su dettagli che hanno lo scopo di definire la natura patologica dei personaggi, il loro isolamento e la loro condizione mentale. Ad accompagnare lo spettatore è la voce fuori campo della protagonista, animata dal desiderio di mettere a tacere tutto, di finirla, di lasciare il suo compagno. I suoi pensieri sono talmente assordanti da arrivare anche a Jake, complice e veggente di un disagio sentito e mai manifesto, controparte in una relazione a senso unico profondamente squilibrata e remissiva in cui l'accondiscendenza dei singoli si concretizza nella mediocrità della coppia. Il viaggio è l'espediente per testare le dinamiche relazionali dei due protagonisti, mossi da conversazioni di circostanza e dall'esigenza di definirsi sminuendo, seppur velatamente, l'altro. 

Sto pensando di finirla qui: la tavola come riflesso della routine 



Le presentazioni si fanno a tavola: chi sei, da dove vieni, quante lingue parli, cosa dipingi, quali sono le tue prospettive future, vuoi dei bambini? Le dinamiche di una famiglia sono tutte lì e si rivelano sedendo l'uno di fronte all'altro, ossessione dopo ossessione. La regia si antepone ai movimenti dei personaggi, li anticipa, cambia stanza prima che possano farlo loro. Dean (David Thewlis) e Suzie (Toni Collette), i genitori di Jake, sono incapaci di pensare sottovoce e la tavola non è altro che la premessa per l'esaltazione delle loro peculiarità più complesse, per il loro riso esasperato che si traduce in pianti consapevoli. La dissonanza tra questi personaggi - l'uno passivo, l'altra ai limiti della follia - colti nel dilatarsi dell'arco temporale, costituisce un perno fondamentale nella svolta filmica. Quando ci sembra che tutto stia procedendo normalmente, alla nota invasività genitoriale fa da contraltare un ritmo ossessivo, angosciante, un flusso di diapositive che rivela la classica prevedibilità di un epilogo sofferto

Sto pensando di finirla qui: ogni cosa è tinta
(Attenzione, la sezione dell'articolo contiene spoiler)



Ogni cosa è tinta, è falsa, fallace, interpretabile, temibile. Il perimetro dei protagonisti si dispiega fino ad abbracciare i due protagonisti in una stessa identità. La psiche frammentata di Jake plasma in sé un mondo parallelo in cui il protagonista non riesce in ogni caso a liberarsi dal disagio, a tessere una trama di relazioni che lo sostengano, a farsi amare da qualcuno che non si senta soffocato dalla pressione della sua diversità. Solo nel terzo atto, alla frontiera tra realtà e dramma onirico, Jake sembra finalmente gratificarsi davanti al suo pubblico, una platea disegnata al millimetro da un abile, solo, stravagante essere umano. 



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