Favolacce, recensione



Ecco la nostra recensione del film vincitore 
dell’Orso d’argento alla miglior sceneggiatura al Festival di Berlino.
Nel cast Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Max Tortora e Gabriel Montesi.


“Quanto segue è ispirato a una storia vera, la storia vera è ispirata a una storia falsa...la storia falsa non è molto ispirata.”

Inizia con un voice over il film dei fratelli D’innocenzo. Un uomo (la voce che ascoltiamo è di Max Tortora) trova il diario di una bambina. La storia raccontata è incompleta e l’uomo continua, inventando, il racconto iniziato dalla bambina. E così vediamo, rappresentata davanti a noi, la periferia romana di Spinaceto, dove vivono poche famiglie e tutti si conoscono, dove i giorni sono tutti uguali e ognuno è invidioso dell’altro.

Dopo Dogman (2018) di Matteo Garrone, i D’innocenzo scrivono un’altra sceneggiatura che racconta di una periferia romana, rappresentata però come un non-luogo, e di una piccola comunità di persone. Questa storia a metà tra finzione e realtà racconta di un’estate, di un piano rivoluzionario e allo stesso tempo di una tragedia.

Non c’è un vero protagonista in Favolacce, forse, il vero protagonista è l’uomo che narra la storia del diario. Seguiamo la vita di queste famiglie dagli occhi dei bambini, e quindi gli adulti ci sembrano lontani e “stupidi”, mentre i bambini riescono con pochissime battute a reggere il film. E sono proprio loro infatti il centro del film. I D’innocenzo riescono a raccontare l’attualità mascherandola da finzione, riescono a catturare due generazioni.

Quella dei genitori oppressi e infelici, bloccati 
in una vita che non è più la loro ma inermi e 
inetti nel viverla e nel consumarla. E tra queste figure spicca Elio Germano, che con un esiguo minutaggio riesce a rappresentare rabbia e disperazione in un modo soppresso e sommesso, ormai stanco e scoraggiato.

L’altra generazione sono proprio i bambini, silenziosi, cresciuti con queste figure genitoriali insulse, che cercano di esprimere tutto quello che i loro genitori non riescono a dire.Il film si conclude quindi con un atto tragico, malefico e
orrendo che ci viene mostrato di seguito a l’unica scena che forse aveva un sentore di speranza.

Una chiusa distruttiva e cinica, che racchiude l’anima del film insieme al silenzio dei bambini; un atto di espressione e di rabbia, quella rabbia che corrode gli adulti da dentro e che invece esplode con i ragazzi, che con quella sensazione ci hanno convissuto troppo a lungo.

Ma in fondo era solo una storia vera, ispirata ad una storia falsa, non molto ispirata.


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