Pieces of a Woman, recensione


Pieces of a Woman, prima prova in lingua inglese del regista ungherese Kornel Mundruczò, consacra definitivamente Vanessa Kirby (la Margaret di The Crown), vincitrice grazie a questo ruolo della Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Il film è un dramma intenso, sentito, di elaborazione di un lutto da parte di una coppia. Una storia di sentimenti incomunicabili, che sono prima a pezzi, dissonanti, spezzati, poi si ricompongono e vengono restituiti in tutta la loro purezza disarmante. Una storia anche autobiografica, dato che la sceneggiatrice, Kata Wèber, si è ispirata per il film ad un'esperienza simile vissuta da lei e dal regista, suo marito all'epoca.

E' settembre, a Boston. Martha (Vanessa Kirby) e Sean (Shia LaBeouf) aspettano un bambino. Una ripresa in campo lungo del ponte alla cui costruzione sta lavorando Sean ci proietta nel tempo e nello spazio. Sarà sempre questo scenario a scandire il passare non solo del tempo fisico ma anche del tempo di una donna che deve elaborare un lutto. Il film si prende tutto il tempo necessario per raccontare il processo fisico e psicologico di elaborazione del dolore della perdita di Martha, protagonista assoluta. La narrazione è sofferta fin dall'inizio, nell'intenso e drammatico piano sequenza della durata di 23 minuti, che segue l'avvicendarsi del parto. Facciamo nostro il dolore fisico, interiorizzando l'aderenza epidermica dell'occhio registico al corpo sofferente dell'attrice. Il regista, infatti, fa leva sulla manifestazione fisiologica del parto, catalizzando l'attenzione sul linguaggio corporeo della Kirby. La sua performance attoriale è encomiabile, meticolosa: difatti, sebbene non abbia mai partorito nella vita reale, ha avuto la possibilità di assistere a diversi parti, per poter osservare e capire come riportare un travaglio nella finzione.

I mesi passano, Boston è sempre più fredda, ricoperta di neve, così come distaccati, freddi e frammentati sono i rapporti che Martha ha con il mondo esterno. Martha crea attorno a sé una bolla inscalfibile, in cui non ammette nessuno. Nel corso del film possiamo notare un'inquadratura ricorrente: un campo medio di Martha, visto attraverso una o più porte aperte, come tramite uno sguardo dalla porta accanto. La cinepresa la segue ma rimane comunque lontana. Il dolore, l'elaborazione del lutto, sono suoi; gli affetti esterni cercano di infiltrarsi o invadere quello spazio, eppure Martha non concede nulla a nessuno.

La narrazione non fa leva sulle questioni etiche o morali, quanto piuttosto sulla figura di Martha, sul suo animo spezzato, sul muro di apatia che pone nei confronti delle interferenze del mondo circostante. Le influenze esterne le chiedono continuamente di andare avanti, alzare la testa, individuare un capro espiatorio, mentre Martha capisce che non può ottenere pace con una riparazione di ciò che per sempre è stato distrutto.

Tuttavia, c'è la consapevolezza di ciò che si è stati in grado di ottenere, chiave fondamentale per una nuova ripartenza; parte culminante del processo di elaborazione è la rinascita, la rivendicazione di sé stessa. “Raccogliere i pezzi”, per Martha, significa partire da una stanza chiusa, una propria bolla di sofferenza e malessere, ma con una porta sempre aperta al domani, rendendosi conto che la preservazione del ricordo è la base su cui poter costruire un giardino fertile, far germogliare nuovi inizi.

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