Sound of Metal, recensione

“Sound of Metal”, esordio registico di Darius Marder, indaga il tormento di Ruben (Riz Ahmed), giovane batterista di un gruppo metal, improvvisamente affetto da sordità e quindi impossibilitato a continuare la carriera musicale assieme alla fidanzata Louise (Olivia Cooke). Marder ci offre una restituzione realistica e introspettiva della vicenda, un percorso insolito, di lenta catarsi, che porta alla riscoperta del personaggio attraverso la disabilità.

I suoni metallici del palcoscenico su cui si esibiscono Lou e Ruben aprono il film; il comparto musicale è potente, intenso, fa leva su una grande esternazione di sonorità, rabbia e rumore. Tuttavia la vita nomade dei due e questa modalità di condivisione del suono si spezzeranno ben presto, indirizzando Ruben verso una comunità di recupero per sordi e tossicodipendenti e Lou a Parigi, dove si ricongiungerà con il padre. Inizia così per Ruben un forte percorso di introspezione psicologica, che metterà in luce il suo problema più grande, la tossicodipendenza. Ruben è infatti pulito da quattro anni dalle droghe, ma non dalle sue dipendenze. Deve imparare ad adattarsi alla vita in comunità, dove viene accolto senza filtri o pregiudizi. 

Noi spettatori tifiamo per Ruben, affinché possa trovare una sua dimensione all'interno di questo gruppo; vogliamo imparare il linguaggio dei segni assieme a lui, tracciare una dimensione parallela per poter stare al suo passo. Ruben si trova alle prese con l'accettazione di un nuovo stato di essere. Si muove all'interno di una realtà in cui la ricerca del suono è anche ricerca di silenzi; la sua esistenza si muove su due linee costanti e parallele, fatte di rumori oggettivi e silenzi soggettivi. La macchina da presa segue le sonorità del mondo e la sordità di Ruben mettendola in mostra attraverso primi e primissimi piani, ma anche un rimodellamento della sua fisicità. Riz Ahmed offre infatti un'interpretazione attoriale intensissima; il suo corpo è modellato nella tensione muscolare e nervosa e la sua performance consta di un lavoro molto accorto sulla gestualità e la prossemica, che ridiviene fonte primaria della comunicazione. Riscopriamo un Ruben bambino, attraverso il suo volto e gli occhi magnetici. Si parte da un personaggio esteticamente e caratterialmente ruvido, ribelle, ma lo si riscopre bambino in un mondo da ricostruire, da riconoscere da zero. Si va dalle vibrazioni sonore - lascito di una carriera ormai finita - a un nuovo linguaggio, quello dei segni, da imparare ed assorbire. 

È un film alla ricerca del suono e della sonorità; non è incentrato sul racconto della vita di Ruben, non si mostra un protagonista retorico, coraggioso, un lieto fine. Ruben è pressoché privo di backstory e vive quasi esclusivamente nel presente. Si rendono materiali i rumori, i ronzii, le vibrazioni, quel “metal” del titolo che fa riferimento a tutto ciò che si scoprirà una volta che Ruben cerca di riconquistare il suono tramite l'apparecchio acustico. Lo spettatore viaggia con Ruben alla ricerca di un nuovo riappropriarsi delle sonorità, tramite soluzioni di sound design estremamente efficaci: l'assenza di musica extradiegetica, le continue entrare e uscite nella e dalla percezione uditiva di Ruben - un rimbombo pieno, isolante e corposo. 

È un processo che implica il fare i conti con tutto ciò che si presentava inizialmente come scomposto, per approdare a una risistemazione personale e sonora. Emblematica è la sequenza del brano cantato a Parigi da Lou e il padre: una lenta trasformazione da canzone quasi sofferta ad una reinterpretazione metal e caotica dal punto di vista di Ruben, per via dell'apparecchio acustico. Ogni cosa percepita da lui diventa quasi come un richiamo dagli inferi, distorsione di una realtà che sembra non appartenergli più... Allora, tutto questo caos decide di toglierlo di mezzo. Si libera di qualsiasi supporto, ritorna allo stato basilare, al contatto con la natura e con i pensieri azzerati, abbracciando pienamente il silenzio. L'isolamento, non solo acustico, ma estremamente intimo e personale, non deve per forza acquisire un'accezione negativa: alla fine del film si è immersi in una sonorità che si espande attraverso il silenzio, che invita alla meditazione su sé stessi e su ciò che ci circonda. 

Ruben arriva a tagliarsi i capelli, allo spogliarsi di tutto, per approdare a una sospensione tra un passato sempre più distante e un futuro in cui si ha il coraggio di riappropriarsi di una dimensione intima e di contemplazione del silenzio più assoluto, mentre fuori imperversano le ultime, quasi infernali, sonorità.

Commenti